Focus On Guido Guidi
Marta Dahò – Considerazioni. Brevi appunti sulla pratica fotografica di Guido Guidi
Testo tratto dal catalogo De Las Cosas IIC Madrid
La con-sideratio, in latino, consiste nello scoprire come gli astri si assemblano per formare un segno nel cielo notturno. Come, dipendendo dalle stagioni, si configurano e come il loro influsso, in date fisse e in un determinato luogo, si esercita sugli uomini, gli animali, le piante, la portata del fiume, il livello del lago, le grandi maree. In latino si chiamano sidera gli astri. I sidera portano le stagioni, stupiscono, giacchè ne determinano la lora apparizione e la loro scomparsa. Segnalano l’ascesa e il tramonto degli esseri. La loro assenza (de-sideratio) veniva lamentata a seconda del momento del mese o dell’epoca dell’anno.
Pascal Quignard, La imagen que nos falta
“La lente è un circolo che mi ricorda la forma della Terra, della Luna, e anche la rotazione del pianeta. Mi piaceva far sentire questo movimento, questa perdita di gravità attraverso l’inclinazione dell’orizzonte”.
Che cosa prendono in con-siderazione le fotografie di Guido Guidi? Cosa comprendono, quali scopi perseguono? Cosa osservano attentamente e cosa intendono comprendere? Si potrebbe pensare, essendo la sua opera specialmente prolifica, che sia un compito alquanto arduo cercare di dare una risposta a queste domande. Eppure, al di là dell’apparente infinità di motivi che nel corso della sua lunga carriera hanno attirato la sua attenzione, la costanza con cui ha svolto il suo lavoro permette di individuare i punti chiave della sua concezione sul paesaggio contemporaneo e sullo stesso mezzo fotografico. Dalle cose, la mostra che accompagna questo catalogo, traccia alcuni dei segni fondamentali della sua vasta costellazione di interessi ed invita a sondare la profonda portata teorica della sua riflessione visiva.
Il percorso dei diversi momenti della sua particolare cartografia artistica che riunisce la mostra, innanzitutto, lascia intravedere la rilevanza e la complessità che occupa la dimensione temporale nel suo lavoro. Se alcune opere evidenziano il carattere sequenziale della presa fotografica — come quelle realizzate a Preganziol, vicino Venezia o a casa sua, nelle prossimità di Cesena, osservando in entrambi i casi le configurazioni della luce solare attraverso la finestra o l’ombra degli alberi durante un’ecclissi —, in realtà, il carattere processuale non è solo uno dei tratti distintivi della sua pratica, ma anche della sua idea di fotografia.
Poco o per nulla identificato con le esigenze dell’istante decisivo, la concezione di Guidi non si basa sulla produzione di fotografie isolate che possono funzionare come icona. Persino quelle fotografie che in quest’occasione si espongono singolarmente o come dittici appartengono a progetti molto più ampi, con tempi di realizzazione che variano enormemente. A volte, pochi giorni, come è successo a Gibellina, dove Guidi era stato invitato ad offrire una sua interpretazione di questa città siciliana; mentre, in altre occasioni, le sue ricerche, come quelle che ha dedicato ai paesaggi della Strada Romea (1975-1990) o alla Tomba Brion di Carlo Scarpa (1997-2007), possono richiedere diversi anni.
In realtà, nulla impedisce di poter muovere le sue fotografie dai loro gruppi iniziali, più o meno ampi, ed essere riorganizzate tessendo nuove relazioni tra loro. La tendenza sperimentale del suo approccio fotografico lo consente, favorendo un processo intenso di continue e rinnovate letture. Le sue fotografie, persino quelle realizzate in occasione di commissioni da parte di enti pubblici4 , non sono pensate preventivamente come progetto, e la loro articolazione editoriale o espositiva elude le logiche narrative. La sua sintassi è un’altra ed è mutevole. Anche se alcuni dei suoi lavori più importanti e dilatati nel tempo possono presentare un’unità tematica o geografica ben circoscritta — come Montegrappa, nel Veneto— non per questo escludono l’apertura a nuove edizioni con molteplici variabili; nozione che ha dato precisamente il titolo a uno dei suoi libri più importanti: Varianti.
Guidi non esita a ritornare infinite volte in uno stesso luogo per fotografare minime trasformazioni: un filo di luce, un colpo di vento, il percorso dello spostamento della Luna, dei bambini che osservano il fotografo attraverso una finestra… Il suo modo di occuparsi di questi micro-avvenimenti è forse una delle manifestazioni più evidenti di ciò che le sue fotografie prendono in considerazione, nel senso letterale, se facciamo riferimento all’etimologia del termine e della fascinazione di Guidi per l’osservazione dei passaggi della luce: i suoi movimenti, le sue inclinazioni, i suoi percorsi. D’altra parte, il riferimento al tempo che scorre, al riflesso dei suoi ritmi e alle tracce luminose sulle più svariate superfici – le porte di un teatro, i muri di un cimitero o le finestre di casa sua — si sono rivelate attraverso una modalità interrogativa piuttosto che come affermazione tassativa con la quale normalmente viene identificato il mezzo fotografico nel suo aspetto documentaristico. A proposito del suo lavoro sulla tomba Brion, progettata da Carlo Scarpa, figura fondamentale alla base delle sue riflessioni, Guidi scrive: “A San Vito di Altivole volevo fotografare tutto ripetutamente, in ogni stagione e alle diverse ore del giorno. Ho lavorato fotografando anche molto velocemente e poi tornando a guardare cosa avevo preso. Usando la camera come uno strumento di raccolta, una rete a strascico, non potevo conoscere in anticipo tutte le informazioni che stavo raccogliendo. Era come scandagliare il fondo marino o eseguire delle trivellazioni in una miniera, ogni volta distinguendo fra ciò che viene a galla quel tanto che basta per sapere cosa cercare la prossima volta”.
Pascal Quignard, La imagen que nos falta
“La lente è un circolo che mi ricorda la forma della Terra, della Luna, e anche la rotazione del pianeta. Mi piaceva far sentire questo movimento, questa perdita di gravità attraverso l’inclinazione dell’orizzonte”.
Che cosa prendono in con-siderazione le fotografie di Guido Guidi? Cosa comprendono, quali scopi perseguono? Cosa osservano attentamente e cosa intendono comprendere? Si potrebbe pensare, essendo la sua opera specialmente prolifica, che sia un compito alquanto arduo cercare di dare una risposta a queste domande. Eppure, al di là dell’apparente infinità di motivi che nel corso della sua lunga carriera hanno attirato la sua attenzione, la costanza con cui ha svolto il suo lavoro permette di individuare i punti chiave della sua concezione sul paesaggio contemporaneo e sullo stesso mezzo fotografico. Dalle cose, la mostra che accompagna questo catalogo, traccia alcuni dei segni fondamentali della sua vasta costellazione di interessi ed invita a sondare la profonda portata teorica della sua riflessione visiva.
Il percorso dei diversi momenti della sua particolare cartografia artistica che riunisce la mostra, innanzitutto, lascia intravedere la rilevanza e la complessità che occupa la dimensione temporale nel suo lavoro. Se alcune opere evidenziano il carattere sequenziale della presa fotografica — come quelle realizzate a Preganziol, vicino Venezia o a casa sua, nelle prossimità di Cesena, osservando in entrambi i casi le configurazioni della luce solare attraverso la finestra o l’ombra degli alberi durante un’ecclissi —, in realtà, il carattere processuale non è solo uno dei tratti distintivi della sua pratica, ma anche della sua idea di fotografia.
Poco o per nulla identificato con le esigenze dell’istante decisivo, la concezione di Guidi non si basa sulla produzione di fotografie isolate che possono funzionare come icona. Persino quelle fotografie che in quest’occasione si espongono singolarmente o come dittici appartengono a progetti molto più ampi, con tempi di realizzazione che variano enormemente. A volte, pochi giorni, come è successo a Gibellina, dove Guidi era stato invitato ad offrire una sua interpretazione di questa città siciliana; mentre, in altre occasioni, le sue ricerche, come quelle che ha dedicato ai paesaggi della Strada Romea (1975-1990) o alla Tomba Brion di Carlo Scarpa (1997-2007), possono richiedere diversi anni.
In realtà, nulla impedisce di poter muovere le sue fotografie dai loro gruppi iniziali, più o meno ampi, ed essere riorganizzate tessendo nuove relazioni tra loro. La tendenza sperimentale del suo approccio fotografico lo consente, favorendo un processo intenso di continue e rinnovate letture. Le sue fotografie, persino quelle realizzate in occasione di commissioni da parte di enti pubblici4 , non sono pensate preventivamente come progetto, e la loro articolazione editoriale o espositiva elude le logiche narrative. La sua sintassi è un’altra ed è mutevole. Anche se alcuni dei suoi lavori più importanti e dilatati nel tempo possono presentare un’unità tematica o geografica ben circoscritta — come Montegrappa, nel Veneto— non per questo escludono l’apertura a nuove edizioni con molteplici variabili; nozione che ha dato precisamente il titolo a uno dei suoi libri più importanti: Varianti.
Guidi non esita a ritornare infinite volte in uno stesso luogo per fotografare minime trasformazioni: un filo di luce, un colpo di vento, il percorso dello spostamento della Luna, dei bambini che osservano il fotografo attraverso una finestra… Il suo modo di occuparsi di questi micro-avvenimenti è forse una delle manifestazioni più evidenti di ciò che le sue fotografie prendono in considerazione, nel senso letterale, se facciamo riferimento all’etimologia del termine e della fascinazione di Guidi per l’osservazione dei passaggi della luce: i suoi movimenti, le sue inclinazioni, i suoi percorsi. D’altra parte, il riferimento al tempo che scorre, al riflesso dei suoi ritmi e alle tracce luminose sulle più svariate superfici – le porte di un teatro, i muri di un cimitero o le finestre di casa sua — si sono rivelate attraverso una modalità interrogativa piuttosto che come affermazione tassativa con la quale normalmente viene identificato il mezzo fotografico nel suo aspetto documentaristico. A proposito del suo lavoro sulla tomba Brion, progettata da Carlo Scarpa, figura fondamentale alla base delle sue riflessioni, Guidi scrive: “A San Vito di Altivole volevo fotografare tutto ripetutamente, in ogni stagione e alle diverse ore del giorno. Ho lavorato fotografando anche molto velocemente e poi tornando a guardare cosa avevo preso. Usando la camera come uno strumento di raccolta, una rete a strascico, non potevo conoscere in anticipo tutte le informazioni che stavo raccogliendo. Era come scandagliare il fondo marino o eseguire delle trivellazioni in una miniera, ogni volta distinguendo fra ciò che viene a galla quel tanto che basta per sapere cosa cercare la prossima volta”.
Se dovessimo identificare l’elemento che accomuna i vari lavori di Guidi forse potremmo dire che si tratta del suo interesse per la trascrizione in immagini dell’esperienza del guardare, prendendo in considerazione non solo ciò che è stato visto, ma anche il come si sia verificata questa confluenza tra la macchina fotografica, la percezione del fotografo e la sua cultura visiva con lo scopo di osservare, nella copia finale, le configurazioni e le molteplici relazioni che scaturiscono da questo incontro. D’altra parte, nel suo caso, il passaggio tra lo spazio fisico della presa fotografica e lo spazio bidimensionale della copia finale non segue una modalità illustrativa. Le sue fotografie non si offrono come rappresentazioni — nel senso comune del termine —, non si propongono come un riassunto completo e definito di significati prestabiliti e, soprattutto, non generalizzano situazioni. E se la copia finale non è la visualizzazione di un pensiero su ciò che viene visto ma anche un pensiero nel suo farsi, fotografare servirebbe quindi a seguire attentamente un processo di chiarimento e comprensione: un “durante”. Guidi fotografa come esercizio per vedere, con l’unico requisito di non lasciarsi perturbare troppo da ciò che già sa, senza certezze su ciò che osserva, cercando di vedere quello che non era previsto, mettendo in discussione ciò che si dava per scontato; in definitiva, un “disautomatizzare” lo sguardo.
“A me interessa una bellezza più difficile, che sfugge: il momento della trasformazione nello sguardo che è un momento di comprensione delle cose. Osservi una cosa e in qualche modo la vedi, e nel vederla la comprendi, la afferri: questa è bellezza, ma dura solo un momento, subito dopo l’hai già vista. L’accademia del bello e del visibile codificato, che ancora perdura, è una stupidaggine, perché una cosa che hai visto e afferrato è subito una cosa morta, ha perso la sua bellezza, e devi ricominciare da capo”.
Molto più semplice da dirsi che da farsi, Guidi non ha smesso di confrontarsi direttamente con il proprio mezzo fotografico — sia con le sue possibilità tecniche e sia con i suoi discorsi storiografici associati — con diversi sotterfugi come, per esempio, l’uso di obiettivi che non coprano completamente il margine della fotografia, simulando così l’iconografia del XIX secolo, o producendo misteriose inclinazioni dell’inquadratura pur lavorando con una macchina fotografica di grande formato. Quando gli si chiede sul senso e sui motivi che lo inducono a interrompere la sensazione di trasparenza propria del registro documentaristico, insensatamente per alcuni, Guidi si giustifica affermando — non senza ironia— che questi “errori” si devono allo spirito ribelle della sua macchina fotografica, che non sempre vuole obbedirlo. “La macchina a volte ‘vuole’ andare per conto suo, è maleducata e non posso farci niente. Devo assecondarla perché mi educhi. È lei, infatti, ad essere capace di cogliere le cose là dove non sono state ancora pensate o forse neppure viste”. D’altra parte, questa sorta di incidenti sono il riflesso del suo modo di imitare i gesti della macchina, di mimetizzarsi con lei e, in un certo censo, di essere macchina.
In modo ricorrente Guidi mette in scena il processo della presa fotografica nel suo divenire, di cui una delle immagini sarebbe l’inclusione del riflesso della macchina o dell’ombra del fotografo nell’inquadratura; ma sono diverse le varie fotografie raccolte nella mostra Dalle cose che indicano come la sua riflessione sulla mimesi, durante il suo percorso artistico, abbia preso corpo nel suo vocabolario visivo. Lo rivela la complessità con cui le sue fotografie abbracciano la specularità. Se le cose — a cui fa riferimento il titolo della mostra — ci guardano laddove noi crediamo di guardare, persino noi come spettatori potremmo sorprenderci nello scoprire il nostro riflesso sul vetro delle sue finestre.
Questa pratica fotografica di carattere fenomenologico, in cui la consueta separazione tra l’osservatore e il mondo risulta costantemente alterata, è stata anche specialmente importante nel contesto di rinnovamento del linguaggio fotografico che si verifica dagli anni settanta. Se la sua formazione, in studi di architettura, design e fotografia, ha fatto sì che le sue ricerche fossero strettamente relazionate con la riflessione sul territorio contemporaneo, la cultura urbanistica e l’architettura, Guidi ha privilegiato sin dall’inizio il dialogo con l’ambiente circostante. Interessato ai bordi, al limitrofo, ai territori indefiniti della provincia, Guidi vi ha trovato una “zona franca” libera da stereotipi; proprio perchè, a differenza dei centri storici delle città o dei paesaggi idilliaci istituiti dall’arte, per decenni questi spazi non sono stati oggetto di grande attenzione. Lavorare in questo territorio di frontiera tra la campagna e la città ha significato percorrere luoghi che richiedono una speciale disponibilità a interrogarsi per osservare senza pregiudizi — come lui stesso ha affermato in molte occasioni — situazioni non codificate, non viste o mal viste.
Contraddicendo l’idea di fotografia come fait accompli, come rappresentazione di qualcosa di concluso, le sue fotografie non solo indicano le modalità della presa aggiungere fotográfica nel suo continuo interesse per le minime trasformazioni; nella sua intensa osservazione di cose quotidiane, le sue considerazioni sulla luce e il visibile configurano segnali, autentiche rivelazioni che invitano a pensare l’immagine come processo. Le sue fotografie insegnano a guardare con sempre maggiore attenzione il dettaglio di ciò che a prima vista potrebbe considerarsi ovvio, disposti a considerarel’immagine nella sua incommensurabile trasformazione.
Marta Dahò
“A me interessa una bellezza più difficile, che sfugge: il momento della trasformazione nello sguardo che è un momento di comprensione delle cose. Osservi una cosa e in qualche modo la vedi, e nel vederla la comprendi, la afferri: questa è bellezza, ma dura solo un momento, subito dopo l’hai già vista. L’accademia del bello e del visibile codificato, che ancora perdura, è una stupidaggine, perché una cosa che hai visto e afferrato è subito una cosa morta, ha perso la sua bellezza, e devi ricominciare da capo”.
Molto più semplice da dirsi che da farsi, Guidi non ha smesso di confrontarsi direttamente con il proprio mezzo fotografico — sia con le sue possibilità tecniche e sia con i suoi discorsi storiografici associati — con diversi sotterfugi come, per esempio, l’uso di obiettivi che non coprano completamente il margine della fotografia, simulando così l’iconografia del XIX secolo, o producendo misteriose inclinazioni dell’inquadratura pur lavorando con una macchina fotografica di grande formato. Quando gli si chiede sul senso e sui motivi che lo inducono a interrompere la sensazione di trasparenza propria del registro documentaristico, insensatamente per alcuni, Guidi si giustifica affermando — non senza ironia— che questi “errori” si devono allo spirito ribelle della sua macchina fotografica, che non sempre vuole obbedirlo. “La macchina a volte ‘vuole’ andare per conto suo, è maleducata e non posso farci niente. Devo assecondarla perché mi educhi. È lei, infatti, ad essere capace di cogliere le cose là dove non sono state ancora pensate o forse neppure viste”. D’altra parte, questa sorta di incidenti sono il riflesso del suo modo di imitare i gesti della macchina, di mimetizzarsi con lei e, in un certo censo, di essere macchina.
In modo ricorrente Guidi mette in scena il processo della presa fotografica nel suo divenire, di cui una delle immagini sarebbe l’inclusione del riflesso della macchina o dell’ombra del fotografo nell’inquadratura; ma sono diverse le varie fotografie raccolte nella mostra Dalle cose che indicano come la sua riflessione sulla mimesi, durante il suo percorso artistico, abbia preso corpo nel suo vocabolario visivo. Lo rivela la complessità con cui le sue fotografie abbracciano la specularità. Se le cose — a cui fa riferimento il titolo della mostra — ci guardano laddove noi crediamo di guardare, persino noi come spettatori potremmo sorprenderci nello scoprire il nostro riflesso sul vetro delle sue finestre.
Questa pratica fotografica di carattere fenomenologico, in cui la consueta separazione tra l’osservatore e il mondo risulta costantemente alterata, è stata anche specialmente importante nel contesto di rinnovamento del linguaggio fotografico che si verifica dagli anni settanta. Se la sua formazione, in studi di architettura, design e fotografia, ha fatto sì che le sue ricerche fossero strettamente relazionate con la riflessione sul territorio contemporaneo, la cultura urbanistica e l’architettura, Guidi ha privilegiato sin dall’inizio il dialogo con l’ambiente circostante. Interessato ai bordi, al limitrofo, ai territori indefiniti della provincia, Guidi vi ha trovato una “zona franca” libera da stereotipi; proprio perchè, a differenza dei centri storici delle città o dei paesaggi idilliaci istituiti dall’arte, per decenni questi spazi non sono stati oggetto di grande attenzione. Lavorare in questo territorio di frontiera tra la campagna e la città ha significato percorrere luoghi che richiedono una speciale disponibilità a interrogarsi per osservare senza pregiudizi — come lui stesso ha affermato in molte occasioni — situazioni non codificate, non viste o mal viste.
Contraddicendo l’idea di fotografia come fait accompli, come rappresentazione di qualcosa di concluso, le sue fotografie non solo indicano le modalità della presa aggiungere fotográfica nel suo continuo interesse per le minime trasformazioni; nella sua intensa osservazione di cose quotidiane, le sue considerazioni sulla luce e il visibile configurano segnali, autentiche rivelazioni che invitano a pensare l’immagine come processo. Le sue fotografie insegnano a guardare con sempre maggiore attenzione il dettaglio di ciò che a prima vista potrebbe considerarsi ovvio, disposti a considerarel’immagine nella sua incommensurabile trasformazione.
Marta Dahò